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L'Intervista: Il Teatro Degli Orrori

Redazione Urban

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Ci sono alcune interviste diverse dalle altre, perché ti insegnano qualcosa. Si parte dal parlare di un album, ma poi è come se si aprissero tante finestre.
Parlare con Pierpaolo Capovilla e Giulio Ragno Favero de Il Teatro Degli Orrori è stato un po’ come aprire quegli ipertesti, dove ti sembra di affacciarti da una finestra sul mondo. Nel nostro caso quella finestra si è affacciata principalmente sul binomio paura-coraggio, che può manifestarsi in vario modo: nella vita quotidiana, in uno spaccato della nostra musica, nella storia di un popolo. Durante il tempo trascorso a parlare con loro anche qualcosa nato per scherzo si è trasformato in un enorme tributo e in un bellissimo ricordo di un artista che ha segnato la nostra musica.
Non vi anticipo altro, vi consiglio di leggere, per scoprire dove una chiacchierata, all’interno di un locale durante il soundcheck prima di un concerto, può portarvi.
Il vostro nuovo album è stato definito come la fotografia di un’ Italia allo sfacelo. Quali sono i mali che ci stanno distruggendo?
Capovilla: La mafia, per prima, la corruzione, l’arrampicamento sociale, l’indifferenza e il qualunquismo, un certo fascismo strisciante che c’è negli apparati dello Stato e nella testa della gente… direi che l’elenco è abbastanza completo. Indubbiamente non dico la mafia perché sono qui in Sicilia, dico la criminalità organizzata certamente per prima cosa.
In “Disinteressati e indifferenti” ho visto invece tutto il disagio giovanile moderno. Cosa ci ha fatto diventare così insensibili?
Capovilla: Si parla di alcuni giovani, non di tutti. Si parla di cocaina, di abuso, non solo di droghe e dell’alcol, ma del principio del piacere; c’è un abuso e questo poi distoglie l’attenzione soprattutto dei più giovani, che sono i più vulnerabili come categoria sociale, vulnerabili perché sono più manipolabili e questo li distoglie non solo dal principio dell’autorità, non vorrei mettermi a fare un discorso di tipo psicoanalitico, ma li induce soprattutto ad un qualunquismo che diventa una prigione, diventi vittima delle circostanze storiche, anziché esserne protagonista.
“La Paura” ha un testo che in questo momento è quanto mai attuale. Come possiamo combatterla?
Capovilla: Giulio hai una risposta? Secondo me la musica, soprattutto la musica rock è un bell’antidoto.
Favero: Sicuramente si può combattere con la cultura; di sicuro più si è ignoranti, più si ha paura. C’è poco da fare. Quando non conosci le cose, proprio perché non le conosci ti spaventano e hai paura di affrontarle. Più rischi, più impari e meno paura hai. La vita è fatta di rischio, se uno non rischia mai, anche di fare cose che non gli piacciono, non salterà mai fuori dalla paura, perché il mondo non è solo idilliaco, non è solo felicità, ma è fatto di varie cose. Se ci si sedimenta nell’unico sentire, quello della paura, saltano tutti gli altri sentimenti, che sono altrettanto importanti. Di sicuro non è una cosa da sottovalutare, serve, ma non si può avere solo paura.
Capovilla: Abbiamo paura dei poveri, li temiamo come la peste, abbiamo paura quasi che ci contagino, abbiamo paura degli emarginati, degli ultimi, abbiamo paura degli zingari. Più uno è sfortunato nella vita e più fa paura.
Favero: Più uno è coraggioso più fa paura. Abbiamo paura anche di quelli che attraversano il mare, abbiamo paura che vengano a rubare. E che coraggio che hanno loro!
Capovilla: hanno un coraggio enorme, anche un po’ folle. La voglia di vivere e sopravvivere, spinge le persone a gesti di grande umanità e coraggio.
Favero: Tra l’altro il mondo non l’hanno fatto i paurosi, ma i coraggiosi.
Capovilla: Diciamo che gli introversi però hanno avuto un ruolo!
Favero: Rischiare fa parte del mondo animale, della vita, bisogna rischiare per vivere, se no non si vive.
Rispetto ai vostri esordi, al periodo d’oro della musica alternativa, noto un impoverimento dei testi nelle nuove generazioni di artisti indipendenti, che si stanno spingendo verso temi più leggeri. Cosa sta succedendo alle nuove leve? Hanno paura di mettersi in gioco?
Capovilla: Come se fosse da sfigati affrontare questi temi, magari portano male, chissà. C’è un grande conformismo, dilagante ed epidemico, nella musica italiana. Da tanti anni accade nel mainstream, certamente, nella musica indipendente, anche. C’è un fenomeno che io osservo da un po’ di anni, soprattutto ultimamente, un fenomeno di autocensura da parte degli artisti che hanno paura di esporsi, temono le critiche e in questo modo indubbiamente si autocensurano, hanno paura di pestare i piedi al potente di turno. Noi questo timore non l’abbiamo mai avuto. Siamo felicemente incoscienti della nostra coscienza civile e incivile soprattutto. Siamo dei bancarottieri, ormai. Ogni volta penso che per qualsiasi cosa che dirò ci sarà qualcuno che mi criticherà, mi prenderà per il culo, qualcuno dirà: “eccolo qua, è arrivato Capovilla, crede di essere Carmelo Bene, crede di essere questo e quello.” Ma a me in fondo che mi importa, son talmente sputtanato, talmente dentro questo chiacchiericcio, che alla fine questo chiacchiericcio diventa un rumore di fondo al quale ti abitui e diventi indifferente, grazie a Dio.
Favero: E’ sempre stato così solo che adesso lo sentiamo maggiormente attraverso i social network. Per fare quello che facciamo noi, bisogna fregarsene di quello che pensano gli altri e avere a cuore solo la loro capacità di godere di quello che sappiamo fare, ma di tutto il resto delle critiche ormai ci importa poco.
Capovilla: E’ vero che nella musica indipendente italiana c’è stato un abbassamento di tutto: di contenuti, della poetica, del livello narrativo, del volume (sono tutti in punta di piedi), anche a livello tecnico e tecnologico c’è stato un abbassamento. La tecnologia ti permette di fare un disco in cucina  e non si suona più. Noi invece suoniamo, hai voglia, sempre di più tra l’altro,in questo periodo ci stiamo dedicando di più all’improvvisazione. Ed è quello il bello, il piacere della musica rock, che bisogna suonarla e saperla suonare. Non è che voglia fare il primo della classe, eh? Dico che è bello suonare, cazzo! A volume alto! Le chitarre elettriche! Di questo abbassamento del livello culturale, narrativo e performativo della musica indipendente, stiamo pagando le conseguenze noi incolpevoli e il rock, perché c’è meno interesse nel rock in questo periodo, nel rock in quanto tale, perché ha preso il sopravvento un modo di fare musica diverso.
Giulio sottolinea come anche il liscio abbia perso attenzione e si ride.
Capovilla mi chiede se abbiamo il liscio e io gli spiego che noi in Sicilia ci scateniamo col neomelodico napoletano e gli svelo che molte star del neomelodico sono di origini palermitane.
Capovilla: E’ un fenomeno che si potrebbe indagare dal punto di vista sociologico anche antropologico e musicologico. Povero Pino Daniele! Lui sì che ha saputo rappresentare Napoli e il Paese tutto intero, con una vera musica mediterranea, italiana, autoctona e uno sguardo attento al blues innanzitutto e alla grande musica rock nel mondo. Ci mancherà!
C’è una foto al centro del booklet del disco, a te molto cara. Cosa ti ha colpito di quella ragazza?
Capovilla: La serenità nel suo sguardo, la serenità del giusto, di chi ha ragione nella storia.
Il popolo curdo è il popolo più bello che ci sia nel pianeta ed è anche uno di quei popoli che più ha sofferto e soffre la prevaricazione economica e politica di tutti i suoi vicini e di tutto il mondo. È un popolo laico, socialista, non socialisteggiante, femminista, lo sai questo? Loro hanno un grande leader politico e ideologico, si chiama Abdullah Öcalan , attualmente detenuto in carcere in Turchia nella prigione di İmralı  ed è il fondatore del partito comunista curdo. Quest’uomo lo potremmo tranquillamente epitetare come un Gramsci contemporaneo, perché come lui è in prigione, ma a differenza di Gramsci non gli viene impedito di leggere e di scrivere (cosa che a Gramsci a un certo punto venne impedito, morì giovane lui). Ocalan è un teorico politico straordinario. La sua teoria si chiama teoria del confederalismo democratico. I curdi non vogliono uno Stato, vogliono farsi i cazzi loro, vogliono confederare i propri villaggi, i loro centri urbani. Non vogliono lo Stato perché non vogliono l’esercito. Vogliono vivere in pace col mondo. Sono gli unici laici in Medio Oriente, tra l’altro gente di grandissimo coraggio, anche le donne, soprattutto le donne. Io parlai con un partigiano italiano, che ha scritto un libro e di cui adesso mi sfugge il nome, che è stato a Kobane. È un giovane ragazzo che è andato lì a fare il partigiano e mi disse che le donne curde hanno un coraggio da leonesse e non le ferma nessuno. Questa è una grandissima cosa.
Quella ragazza lì ha 14 anni, davanti a lei c’è sua madre e la sorellina, il kalashnikov glielo hanno donato le forze del YPG, le unità di autoprotezione del popolo curdo. Quella foto ci racconta di un’adolescenza e di una fanciullezza negata a quella donna. Quella donna sono io, siamo noi, è colpa nostra se lì succedono queste cose. Siamo andati con i nostri scarponi, con i nostri soldati lì in Iraq nel ’91. Ci dimentichiamo le cose e adesso si dà tutta la colpa ai sunniti. Non si deve ragionare così. Dobbiamo prenderci le nostre belle responsabilità.
La serenità nel suo sguardo è stupefacente,  ma anche i suoi vestiti e la sua postura hanno una plasticità. E’ stupenda la plasticità dei capelli! La fotografia è splendida! Il fotografo è un ragazzo di 23 anni iracheno, che ci dice anche, con quello scatto, quanto è forte e potente l’arte della fotografia, che è un’arte e non è un chiacchiericcio alla instagram. Si scambiano ogni giorno più di un miliardo di fotografie nel mondo, ma la fotografia è un’arte, quindi è una cosa seria, ci vuole cultura per fare uno scatto bello, bisogna saper essere al posto giusto e nel momento giusto e ci vuole quindi coraggio, per tornare a quello che dicevamo prima, per fare una foto degna di storia, degna di essere ricordata.
Che dire! Grazie infinitamente a Il teatro degli orrori e a Pierpaolo Capovilla e Giulio Ragno Favero per il tempo che mi hanno dedicato e per le belle cose di cui abbiamo parlato.
Egle Taccia
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