Musica
L'intervista: Tall Tall Trees
Abbiamo fatto qualche chiacchiera con Tall Tall Trees, pseudonimo sotto il quale si cela il newyorkese, seppure di origini italiane, Mike Savino, fresco di un tour europeo con tante date in Italia. L’argomento, oltre al tour, è ovviamente il suo interessante progetto da one-man band, caratterizzato da singolari sonorità che si fondano sull’uso massiccio del banjo il cui suono, tramite una catena di effetti, si traveste da tutti gli altri strumenti.
Cominciamo dalle fondamenta del tuo progetto che è sicuramente molto singolare, sia per la strumentazione che usi che per lo stile musicale che proponi. Com’è nato Tall Tall Trees e come hai raggiunto il tuo sound odierno?
Tall Tall Trees è nato come mio progetto parallelo intorno al 2007 quando mi sono munito di Pro Tools ed ho iniziato a registrare nel mio appartamento ad Harlem. Allora ero un bassista turnista in erba, ma dopo un viaggio in Brasile ho preso il mio vecchio banjo ed ho iniziato a scrivere canzoni. Tall Tall Trees è stato per qualche anno un quartetto, ma allo stesso tempo stavo sperimentando l’uso dei pedali e dei loop. Sono sempre stato interessato ad estendere la mia tecnica per suonare più strumenti. Scoprire di poter suonare la batteria sul mio banjo è stata decisamente una delle cose più divertenti e d’ispirazione.
Grazie all’avanzare delle tecnologie e alla diffusione di apparecchi come le loopstation, il concetto di one-man band sta ritornando, ovviamente in una versione aggiornata (penso a G-Fast, Bob Log). Quali sono i vantaggi di essere un one-man band? E quali, invece, gli aspetti negativi (ammesso che ce ne siano)?
Ho iniziato ad andare in tour da solo per necessità. Sapevo che per promuovere la mia musica avevo bisogno di andare in tour, ma farlo in quartetto era spesso impossibile. È molto costoso mangiare, dormire e pagare quattro persone, quindi ho iniziato ad andare in tour da solo come ambasciatore della mia musica. La risposta di pubblico ricevuta è stata travolgente. Credo che alla gente diverta la vulnerabilità di un one-man band da solo sul palco.Tra gli svantaggi c’è che se qualcosa va storto, può essere molto difficile rimediare, ma ciò mi ha reso un performer più forte. Ci si può sentire anche molto soli quando si è in tour, ma il fatto di non aver bisogno di pianificare, provare ed organizzare con una band mi lascia molta libertà nelle decisioni sia sulla mia carriera che quando sono sul palco.
La dimensione live sembra essere fondamentale nella tua attività, tantoché sei praticamente in tour da sempre. In questo tour tocchi l’Europa e l’Italia. Puoi dirci qualcosa in più sulle date italiane? Che riscontro hai avuto dal pubblico italiano?
Visitare l’Italia è stato per lungo tempo un sogno per me per via del mio retaggio. Tutti e quattro i miei nonni emigrarono dall’Italia a New York negli Anni ’20 e sebbene abbiano spinto i loro figli a parlare inglese piuttosto che italiano la cultura è rimasta nel cibo e nei nostri rapporti familiari. Il mio primo lavoro da ragazzo fu lavare teglie in una panetteria, quindi sono cresciuto con molte specialità italiane. Ho trascorso momenti formidabili in tour in Italia e il pubblico era molto entusiasta. Ho imparato che una delle mie canzoni, “Say Something Real”, è una sorta di pizzica e le persone ci si sono ritrovate. Ho trovato gli italiani molto calorosi e socievoli ed il cibo assolutamente incredibile.
Quali pensi siano le tue principali influenze musicali?
Le mie influenze musicali sono tantissime. Da giovane musicista ero per il metal, il primo hip hop ed il rock progressive, che mi ha portato al jazz e alla musica improvvisata. A vent’anni mi sono immerso nella musica proveniente da Africa, Brasile, Medio Oriente e dai Balcani perché affascinato dal ritmo e dalle diverse tonalità. Dopo un lungo periodo di ascolto di musica in altre lingue sono tornato ad esplorare la musica folk del mio Paese stesso, rinvigorendo il mio amore per il bluegrass e la musica country. Oggi ascolto quasi qualunque cosa, ma sono principalmente interessato alle grandi canzoni presentate in maniera unica.
Così come l’idea di One-man band, anche il banjo sta rivivendo una seconda giovinezza. Lo si sente spesso in generi come pop e folk indipendenti e la band Notwist lo ha addirittura accostato all’elettronica. Quali sono la tua storia e il tuo rapporto con questo strumento?
Il banjo è definitivamente tornato ad essere uno strumento popolare in alcuni giri. È uno strumento piacevole con una storia forte, ma non molte persone lo hanno estrapolato dal suo uso convenzionale. Solitamente è usato per rendere più country una canzone e può essere un po’ stucchevole in alcuni casi, ma per me è una tela vuota da dipingere. Ho sempre amato il suo suono ed il suo lato virtuoso e sento come se ci fosse molto da fare con tale strumento di quanto non sia stato fatto prima. Adoro vedere la faccia delle persone quando creo musica EDM usando solo il banjo e qualche pedale. Solitamente è l’ultima cosa che si aspettano.
Hai all’attivo due album e un Ep per la tua Good Neighbor Records e adesso continuerai il tuo tuor in Europa. Che progetti hai per il futuro?
Beh, ho appena finito un nuovo album, che uscirà quest’anno, quindi sarò in tour per un bel po’. Il mio amico e collaboratore Kishi Bashi, con il quale sono solito anche andare in tour, pubblicherà un nuovo album anche lui, quindi mi aspetta un anno molto impegnativo. Mi piacerebbe anche produrre un EP più elettronico usando solo il banjotron, giusto per vedere quanto posso fare. Adesso che sto producendo album da me, senza band, penso che la mia produzione artistica sarà più veloce e costante. Così come penso che all’orizzonte potrebbe esserci anche un album live.
Giuseppe Tancredi
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