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Best new: Nu Bohemien

Redazione Urban

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Abbiamo fatto qualche domanda ai Nu Bohemien, band veneta il cui secondo album “La nostra piccola guerra quotidiana” è uscito lo scorso 3 marzo. Ne è uscita una lunghissima intervista in cui la band si racconta con entusiasmo, precisione e lucidità. Tra gli argomenti, oltre al nuovo album, emergono riflessioni sulla musica indipendente in Italia e sul significato della musica stessa.
Il 3 marzo è uscito il vostro album La nostra piccola guerra quotidiana, per Woodworm Label. Ci dite chi sono i Nu Bohemien e come siete giunti a questo risultato, anche alla luce del vostro primo album La consuetidine del sentito dire, ormai uscito quasi quattro anni fa?
La domanda “chi sono i Nu Bohemien ?” è particolarmente calzante nel nostro caso e mi fa sorridere perchè mi dà modo (ancora, per l’ennesima volta! ) di ribadire un paio di cose divertenti. Sono passati ormai molti anni da quando abbiamo scelto questo nome: al tempo avevamo trovato interessante l’idea di “etichettare” in maniera ironica non solo il nostro gruppo, ma anche il nostro pubblico, e in maniera ancora più ampia anche una porzione della nostra generazione come “bohemien”, una generazione individualista, in cui ognuno si sente un po’ unico e speciale, tutti ad inseguire a proprio modo la particolarità estetica; era anche interessante l’idea di un nome che agisse rompendo il confine tra chi è sotto e chi è sopra il palco. “Nu” nel senso di “nuovi”, ma anche come parola che suonava tanto come un “noi” in senso generale, e avrebbe dovuto essere l’elemento chiave per spiegare tutto il concept… e invece non è stato esplicativo proprio per niente a quanto pare… Chi sono i Nu Bohemien, quindi?
Sono solo 4 ragazzi per niente sofisticati che vengono della provincia, dal basso Veneto, e che si divertono un sacco a scrivere canzoni; Nu Bohemien sono 6 lunghi anni di sala prove, di registrazioni e produzioni eseguite in vari studi, di concerti fatti su e giù per tutto lo stivale!
Sintetizzando, direi che siamo giunti a concepire questo secondo album intitolato La nostra piccola guerra quotidiana attraverso due cambiamenti molto importanti a livello di sound: una parte dell’album (quando eravamo ancora un trio) è stata scritta come il precedente con un set elettro-acustico, ma una volta entrati in studio si è deciso di passare ad una strumentazione elettrica, per quanto riguarda basso e chitarra. Il secondo cambiamento riguarda l’ingresso di un quarto elemento nella band, che ha portato nella scrittura delle musiche strumenti come tastiere e synth, che precedentemente non utilizzavamo nè in fase di scrittura nè dal vivo. Direi che questa evoluzione vada di pari passo con una ricerca sempre più definita di quella che può essere la nostra personalissima dimensione musicale, e non da meno permette maggiore sperimentazione e una gamma più ampia di possibilità di arrangiamento.
Ascoltando il vostro primo lavoro si nota un attaccamento ai temi sociali. Quale spazio avete dato alle problematiche di questo tipo nei testi de La nostra piccola guerra quotidiana?
I temi sociali in quest’ultimo album trovano uno spazio sicuramente meno politico, meno analitico, meno schierato: l’intento qui è quello di scavare dentro la quotidianità del nostro modo di vivere, il famoso stile di vita occidentale, che porta con sè problematiche sociali a volte micro e a volte macro: evito di fare una puntualizzazione testo per testo (perché mi è sempre sembrata eccessiva), però a linee generali si parla molto di ansia, di incertezza, di fuga da luoghi o persone significative, di individualismo ed arrivismo, del bisogno di apparire… Rimane sempre centrale il tema a noi caro della provincia che trova di fatto il massimo sfogo nella traccia “La Provincia (parte II)”, che prosegue il percorso già iniziato con la canzone “La Provincia” contenuta nel precedente album (La consuetudine del sentito dire) a cui aveva collaborato il buon Andrea Appino. L’idea sarebbe quella di formalizzare una trilogia rispetto a questo tema, concludendola (forse) con un’ipotetica “La Provincia (parte III)” da inserire in un futuro terzo album. Chissà! Ritornando a noi, solo in due casi si parla di temi un po’ più specifici come l’aborto (in “Tua Sorella”) o delle politiche repressive che investono le nostre città (in “Alexander”). Ora che mi ci fai riflettere effettivamente queste sono le due tracce meno recenti e che forse risentono ancora un po’ dello stile di scrittura del precedente album. È sicuramente un disco molto più intimo e fotografico. In generale l’immagine che mi piace utilizzare per descrivere questo album è: io, tu, o noi davanti allo specchio la mattina, quanto inizia una nuova giornata, e ci troviamo a fare i conti con noi stessi, con ciò che siamo stati e che siamo ora, fare i conti con le sfide, grandi o piccole che siano, che dobbiamo affrontare. 
Per il nuovo album vi siete affidati alla produzione di Fed Nance, e ho letto che Giovanni Ferliga degli Aucan ha curato il mastering. In che modo avete beneficiato di queste collaborazioni preziose? Ci sono altre collaborazioni in La nostra piccola guerra quotidiana?
Hai detto bene: collaborazioni preziose!
Fed Nance (con cui condivido personalmente un progetto semi-inedito chiamato Tutto Esplode Al Rallentatore) ha dato fin dall’inizio una chiara impronta stilistica al disco: lui è un produttore che ha un concetto della registrazione molto ortodosso… non gli piace utilizzare il pc, gli piace girare pomelli di preamplificatori valvolari, se deve mettere un effetto reverbero non utilizza un plug-in ma utilizza un echo a nastro, ha un approccio molto in stile Steve Albini, non so se rendo l’idea… non gli piacciono le cose perfettine, gli piacciono le cose vere, con del carattere! Le tracce per quanto mi riguarda hanno una forte vena pop, e avremmo potuto scegliere di enfatizzare questo aspetto facendo una produzione un po’ più “paracula” in cui ogni strumento suonava esattamente come ogni persona si aspetta che suoni, e invece no! Fed Nance ci ha spinto verso una ricerca minuziosa di sonorità che non risultassero scontate. Questo forse ha reso il disco un po’ meno mainstream, ma secondo me nel complesso ha fatto fare un salto di qualità pazzesco all’opera. In continuità con lo stile di registrazione, abbiamo deciso di affidarci a Giovanni Ferliga per il mastering, perché anche lui come Fed è uno che lavora con un sacco di macchinari analogici… che dire? La scelta è stata praticamente coerente e consequenziale all’impronta che già aveva il disco, è stata la classica ciliegina sulla torta. Al disco hanno partecipato anche Luca Romagnoli e Marco di Nardo rispettivamente voce e chitarra della band Management Del Dolore Post-Operatorio! Hanno scritto cantato e suonato in “Alexander” la traccia che chiude l’album. Loro sono amici, sono fichissimi!
 Dal punto del sound, vi va di fare il punto della situazione sulle influenze che hanno generato il vostro suono e del modo in cui si è rinnovato nei tempi più recenti?
Di base abbiamo sempre ascoltato un sacco di gruppi stranieri fin da quando eravamo ragazzini: personalmente ero un fanatico di Nirvana, Sonic Youth, Melvins, Mudhoney e tutto questo filone musicale della Seattle anni ’90. Ascoltavamo anche un sacco di cose anni ’80 come The Cure, The Smiths, Joy Division, Sisters of Mercy, The Sound, Television e cose del genere. Di italiani abbiamo ascoltato molto i Verdena e gli Afterhours. Mi sono innamorato delle sonorità acustiche dopo aver visto un concerto di Kaki King. Poi ho ascoltato Elliot Smith e lì ho deciso di acquistare una chitarra acustica! Contestualmente cominciavo ad interessarmi sempre di più a tutta una serie di gruppi indie che cantavano in italiano (principalmente del circuito de La Tempesta) e da qui è nato l’interesse per la scrittura in italiano che prima non avevo mai esplorato davvero. Mettendo un punto credo che il primo album sia un mix di questi 4 elementi: un po’ di grunge anni ’90, un po’ di sonorità new wave, strumenti acustici, e testi scritti in italiano. Io e Thomas abbiamo sempre ascoltato anche cose un po’ più post tipo Shellac, Fugazi, At The Drive In; Marce prima dei Nu Bohemien veniva da un’esperienza come bassista in una band strumentale post-rock, quindi citerei per lui i Mogwai!
Direi che negli ultimi anni i nostri ascolti si sono differenziati e moltiplicati… Francesco ascolta un sacco di cose psichedeliche abbastanza recenti tipo Cosmonauts, King Gizzard and The Lizard Wizard, Thee Oh Sees, Thomas so che sta ascoltando un sacco di cose classiche anni ’70, Marcello ascolta molte cose italiane… personalmente i gruppi che ho ascoltato di più ultimamente sono The Dandy Warhols (che è forse il gruppo che abbiamo condiviso di più tra noi quattro), The Brain Jonestown Massacre, The Growlers, Savages, Temples, Tame Impala, Alt-J, Arcade Fire…
Che funzione deve svolgere, per voi Nu Bohemien, la musica nella nostra vita? Secondo questo parametro vi sentite particolarmente vicini a qualche band o artista in particolare in Italia?
La prima domanda è intrinsecamente complessa, proprio perché la musica è un elemento complesso.
Non credo ci possa essere una funzione univoca. C’è chi ascolta musica per ballare, chi per rilassarsi, chi per trovare risposte… la musica può adempiere a tantissime funzioni differenti, e consequenzialmente viene fatta in mille modi diversi, con generi e stili differenti… Ci sono persone che se sono tristi ascoltano musiche allegre per tirarsi su di morale… io ad esempio tutto il contrario, se sono triste ascolto musiche tristi per accompagnare ed assecondare il mio stato d’animo. Provando a darti una risposta generale direi che la funzione principale della musica è quella di creare empatia ed emozione nell’ascoltatore.
Non credo che nel circuito indipendente italiano ci sia una (o più) band a cui tutti e 4 ci sentiamo affini con la stessa intensità. Diciamo che ci sono molte band che stimiamo e che ci piacciono!
Provo a darti qualche nome: Iosonouncane, C+C Maxigross, Don Vito e i Veleno, Il Teatro Degli Orrori, Aucan, The Zen Circus, New Candys, Management Del Dolore Post-Operatorio, Johnny Mox, i Cani (qui si aprirebbe un dibattito interno acceso ad esempio), sicuramente me ne sto dimenticando tantissimi…
Personalmente, l’artista italiano che è sempre in cima alla mia classifica è Francesco Motta (l’amicizia che intercorre tra noi non centra, lui è proprio talentuoso, punto). 
State organizzando un tour per promuovere il nuovo album?
Sì certo! Le prime sono:
05 Marzo Torino – Samo; 11 Marzo a Peschiera del Garda – Il Trenta Feelgood Bar; 19 Marzo a Vicenza – Csa Arcadia; 07 Maggio Roma – NaCosetta
Le date sono in continuo aggiornamento e ne arriveranno sempre di nuove!
 
Giuseppe Tancredi
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