Musica
Best New: Maria Devigili
A noi di UrbanWeek il talento di Maria Devigili non è passato inosservato! In questa intervista ci racconta il suo secondo album La Trasformazione, e, tra una riflessione filosofica e una citazione artistica, scopriamo la bellezza del “divenire” attraverso i suoi incantevoli occhi.
Dopo Motori e introspezioni torni a far parlare (bene) di te con La Trasformazione : cosa è cambiato rispetto al primo album?
“Motori e Introspezioni” è, in un certo senso, bidimensionale, mentre “La Trasformazione” è tridimensionale, o per lo meno si avvicina più all’idea di tridimensionalità. La differenza quindi è la dimensione prospettica: credo ci sia più profondità nell’ultimo album. I pezzi del primo sono impulsivi, volutamente poco elaborati, volevo fare un disco che non suonasse artefatto rispetto alla verità del live. In parte mi sono auto-limitata. Forse stavo reagendo al mio primo ep del 2011 ( “La Semplicità”) un disco di cui ho “vinto” la produzione grazie ad un Premio per cantautori. L’EP aveva sì le mie canzoni, la mia voce e la mia chitarra, ma con arrangiamenti pop e suoni che non mi rispecchiavano. Con “La Trasformazione” forse ho smesso di “reagire a”, quindi sono stata più libera, ho osato di più, cercando l’equilibrio tra quello che volevo veramente fare (più arrangiamenti) e quello che è il mio sound dal vivo.
Ascoltando i tuoi nuovi brani mi sembra che essi abbiano una veste più essenziale e minimalista di quelli presenti nel tuo precedente lavoro, sia da un punto di vista contenutistico che prettamente musicale. Confermi la mia impressione?
A livello pratico, il primo disco è in realtà molto minimale perché c’è veramente poco: chitarra, voce, pochissimi cori e qualche tappeto sonoro, percussioni. Però quello che dici è vero. Il primo album è minimale ma forse non ancora abbastanza minimalista. Il secondo ha più strumenti e arrangiamenti ma è minimalista. Il minimale è una condizione di fatto, il minimalismo è una scelta. Costantin Brancusi, scultore rumeno dello scorso secolo, disse un giorno: “La semplicità è una complessità risolta”. Per me questo è il minimalismo.
La Trasformazione si avvale di diverse partecipazioni, tra cui quella dello storico cantautore bolognese Claudio Lolli, della songwriter indierock Francesca Bono (Ofeliadorme) e di Lorenzo “Loz” Ori (sound engineer Perturbazione, Toys Orchestra, Massimo Volume). In che modo queste collaborazioni hanno arricchito il tuo progetto artistico?
Certo, mi hanno arricchito moltissimo. L’umiltà e il calore di Claudio Lolli, la simpatia e la voce suadente di Francesca Bono, la calma e i consigli tecnici di Loz. A questo album hanno collaborato tante persone, oltre a quelle da te citate e ne avrei coinvolte anche di più, spazio e tempo permettendo. Specie se sei tuttofare, scrivi, componi, canti e suoni e arrangi il tuo album, il rischio è quello di cadere nell’auto-referenzialità e nel monologo. A dirla tutta, ho anche cercato una produzione artistica ma non l’ho trovata (c’è stato un certo interesse da parte di Marco Parente e anche di Toni Carbone dei Denovo ma poi la cosa non è andata in porto per via delle tempistiche). Ma forse è stato un bene. Perché solo mettendomi a lavorare in prima persona sulla produzione artistica ho capito quello che veramente volevo, l’idea di suono che cercavo. L’arrangiamento deve essere un tutt’uno con la canzone, quello che identifica chiaramente il tuo stile. Ma resta il fatto che un supervisore esterno serve. Un produttore artistico per me deve essere un visionario con i piedi per terra. Io in fondo sono così, ma mi sento un po’ in equilibrio precario a volte.
L’importanza che dai all’interpretazione vocale dei pezzi appare molto evidente ed è, tra l’altro, una delle tue qualità migliori, quella che, a mio avviso, ti porta a distinguerti da tante altre cantautrici in circolazione in questo momento.
Ti ringrazio molto. Ma trovo ci siano belle voci tra le cantautrici italiane. Tu parlavi di interpretazione in effetti, che è diverso. Alle volte mi pare che ci sia più investimento sulla tecnica vocale e meno sul’ interpretazione, questo è vero. Detto questo, la tecnica è importante ed è quella che consente anche più libertà nell’interpretazione. Io non sono proprio una cantante anche se a modo mio ho studiato. Ho fatto solo 2 ore di lezione di canto in vita mia ma sono state due ore di consigli vitali e fondamentali che non smetto tuttora di mettere a frutto. Per almeno un anno, tutti i giorni, mi sono allenata con respirazioni e vocalizzi. Tutt’oggi faccio respirazione profonda ogni giorno. La tecnica è fondamentale ma è come una scala che ti aiuta ad arrivare dove vuoi arrivare. La scala la devi buttare via ad un certo punto, cioè quando sali sul palco. Nel mio piccolo ho cercato d’imparare da quelli veramente grandi. Sia da voci liriche come Maria Callas sia da voci jazz come Billie Holiday, ma anche dai bluesman e da qualche cantautore. In generale sono ammaliata da chi sa diventare un tutt’ uno con la propria voce, con quello che dice, perché il cantare è un dire e un donare. È un evento esistenziale importante, una responsabilità non da poco.
In passato hai aperto i concerti di Cristina Donà e in molti sostengono che lei sia il tuo modello di riferimento principale. Che rapporto hai con lei? E chi altro ha avuto un ruolo importante nella tua formazione musicale?
Quest’estate ho aperto un concerto alla Donà e poi abbiamo avuto modo di chiacchierare e ho scoperto che è veramente una grande donna, ironica e auto-ironica. Trovo sia bravissima, amo la sua capacità di essere intensa rimanendo leggiadra e a livello testuale è veramente unica, ricorre spesso all’ uso di figure immaginifiche forse anche legate al fatto che ha studiato scenografia. Però non è stata il mio modello. Ammetto che prima del 2009, cioè prima di cominciare a suonare in giro, non seguivo molto il panorama indipendente italiano. Di roba italiana “recente” mi piacevano solo i CSI e i Marlene Kunz. Ascoltavo tutta musica estera, rock anni ‘70, la prima elettronica anni ‘80, new wave, punk e grunge. Mea culpa. Pensa che la Donà l’ho scoperta perché tutti mi parlavano di questa similitudine. Addirittura una mia amica, che non conosceva la Donà, un giorno mi ha telefonato facendomi sentire un suo pezzo alla radio dicendomi tutta gioiosa “Senti, sei in radio!” In realtà, i miei modelli sono altri. Faccio fatica a dirteli tutti perché a volte non sono neppure musicali, ma posso sintetizzare. Ho praticamente imparato a cantare studiando puntigliosamente la voce di Luigi Tenco. Trovo sia una summa di tecnica, autenticità, passione, naturalezza. Invece negli ultimi due anni mi sono ispirata molto ad Anna Calvi, anche lei un esempio favoloso, e non solo di voce, anche di chitarrista e performer. Sembrerà strano ma ho anche attinto molto da Giovanni Lindo Ferretti. Ha un modo unico di cantare le parole, le scolpisce e le fa essere. Anche a livello di scrittura, mi sento più in continuità con i CSI che non con Cristina Donà.
Nel libretto del cd ringrazi Eraclito e Platone per averti ispirata. Raccontaci meglio in che modo i due filosofi hanno “contribuito” alla realizzazione delle tue canzoni!
La dedica a Eraclito è dovuta perché lui fu il primo a parlare dell’Essere come Divenire e quindi dell’Essere come Trasformazione. Invece a Platone perché lui per me è semplicemente immenso e una canzone dell’album (“Frammento”) è nata a partire da un suo passo tratto dalle “Leggi”. Ma forse ogni canzone che faccio potrei dedicarla ad un filosofo diverso e forse un giorno farò un concept album di Filosofia. Chissà che la mia laurea di filosofia non sia stata vana.
Un’ultima domanda: cos’è per te la “trasformazione”?
Per me tutto è trasformazione perché, se ci pensi bene, non c’è nulla che non lo sia. Eppure la trasformazione è quella cosa che è ovunque, proprio come l’aria che respiriamo ma che non vediamo e ci dimentichiamo della sua esistenza, per non dire che a volte la rimuoviamo e non la accettiamo per paura. Spesso ciò che è invisibile e silenzioso, ciò che sfugge ai sensi umani, non viene considerato esistente. Eppure credo sia proprio lì la radice di tutto. In ciò che non parla, in ciò che non si fa vedere, in ciò che non è definibile
A cura di Laura De Angelis
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