Musica
Best New: Dorian Gray
Nati negli anni Novanta i Dorian Gray sono tornati in studio dopo cinque anni di assenza. Loro si definiscono, prendendo spunto dal personaggio di Wilde, l’altra parte di loro stessi, quella eroica che permette di sopportare la vita. Il ritorno ufficiale avverrà ad ottobre con l’uscita di “Moonage Mantra”. Nel frattempo in questi mesi la band è stata impegnata a suonare sia in Italia che fuori. Da segnalare la loro presenza alla Canadian Music Week, un festival dall’ampia portata e dal respiro internazionalissimo. Abbiamo chiacchierato con Davide Cantinari per conoscere meglio la band cagliaritana.
Ciao, chi sono i Dorian Gray?
Esistono tanti Dorian Gray, che possono essere vampiri gelosi della bellezza o pigri custodi di un segreto millenario. Credo che ognuno possa definire il suo rapporto con se stesso e il suo immaginario filtrandolo attraverso l’impietoso confronto con lo scorrere del tempo, vero e proprio core business del personaggio inventato da Wilde . In un sistema narcisista che tende all’immortalità ignorando le conseguenze di una ricerca tanto insensata quanto impossibile, Dorian Gray rappresenta solo quello che a noi importa veramente, cioè l’altra parte di se stessi, il nostro io eroico, tutto ciò che ci permette di sopportare la vita e di non concentrarci esclusivamente sulle cose che ci appartengono, senza dimenticare il contesto che le ha generate o le ha distrutte. La nostra scelta è quella di raccontare tutto ciò attraverso la musica, probabilmente l’unica cosa, a dispetto di mode o tendenze, che possa realmente farci galleggiare al di fuori del tempo e dello spazio. Andy Warhol descriveva la vita come un lavoro in cui impegnarsi, per impedire che la paura del dolore o delle malattie possa prendere il sopravvento, come se il debito con i propri sogni fosse l’unica cosa per cui valga la pena di affrontare l’esistenza. In questo senso credo che la musica, se fatta col cuore e non solo per il consenso, sia ancora qualcosa in cui si riflette sempre un briciolo di eternità.
Avete da poco partecipato alla Canadian Music Week. Raccontateci questa esperienza.
La nostra partecipazione al CMW è stata una sorpresa inaspettata. Dopo esserci candidati alle selezioni del festival durante lo scorso autunno nessuno di noi si immaginava che saremmo stati l’unica band italiana che vi avrebbe partecipato.
Si tratta di un festival enorme, concepito e realizzato secondo standard anglosassoni, in cui sia i contenuti che lo stesso apparato organizzativo sfuggono a parametri di giudizio come quelli a cui noi latini siamo abituati. Quasi 1000 concerti, premi e conventions relativi non solo alla musica ma anche al cinema e al teatro, nonché incontri con personaggi veramente “consegnati al mito”, come Eddie Kramer, sound engineer di Hendrix e Zeppelin o Tony Visconti, indimenticato producer di David Bowie, che sono solo alcuni degli ospiti di questa edizione. La sensazione netta di penetrare in un mondo realmente sconosciuto, e chi ha suonato in Nordamerica sa bene di cosa sto parlando, confrontarsi con scenari artistici di livello superiore, almeno sotto il profilo dell’organizzazione e della comunicazione, è la prima cosa che salta agli occhi. Il nostro concerto al Cherry Cola, uno dei club più storici e “vissuti” di Toronto, è stato apprezzato da pubblico e operatori e sicuramente darà luogo a sviluppi per la nostra attività live in previsione di un eventuale ritorno da quelle parti, sempre in maniera autonoma e fieramente indipendente, così come è stato in questa occasione.
Tengo a precisare che , come da statuto del CMW, ogni anno viene prescelta una nazione su cui concentrare il focus, cioé l’approfondimento sulla scena musicale e sui suoi attori – artisti, operatori, festival e discografia – e nel 2017 questo paese sarà l’Italia. E’ quindi facile prevedere che il prossimo anno nel Belpaese ci sarà più attenzione per il CMW e che una nutrita spedizione di nostri connazionali avrà modo di rendersi conto personalmente di quanto ho appena detto, anche attraverso gli eventi “istituzionali” che verranno pianificati nell’ottica della promozione del nostro PIL musicale in Canada.
Fate musica dagli anni Novanta, cosa è cambiato in voi e nel panorama della musica in questi anni?
In qualità di unico superstite della band di quell’epoca la mia sensazione è che nello scenario attuale esistano progetti tecnicamente più quadrati e agguerriti rispetto a quelli di un ventennio fa, anche se la mia impressione è che i contenuti siano forse un po’ meno importanti della forma. La percezione della scena contemporanea, ammesso che il termine “scena” sia quello appropriato per definire ciò che galleggia fra l’indie rock e i talent show, è quella di uno spettacolo in cui tutti debbano sentirsi protagonisti a qualsiasi costo, utilizzando ogni mezzo possibile per arrivare a un pubblico generalista, anche dopo anni di militanza nella cosiddetta indipendenza. Questo processo, accelerato dal proliferare di spazi solo apparentemente dedicati agli emergenti e dalla complicità dei media di settore che necessitano spasmodicamente di novità – come certe riviste inglesi degli anni ’70, vedi Melody Maker – rischia di sbriciolare una generazione di artisti . Un’altra sostanziale differenza sta nell’interazione col pubblico, allora meno palpabile e costante di quanto non sia oggi, alimentata soprattutto dal supporto dei social e in genere dall’esposizione sul web, variabili determinanti per un successo visibile, al netto della già citata tentazione dei talent, ovvero l’annullamento della novecentesca gavetta da garage band, origine di gran parte dei musicisti della mia generazione.
Ad ottobre uscirà il nuovo disco “Moonage Mantra”, come lo descrivete?
Se è vero che ogni nostro album è sempre stato vissuto come fosse un esordio assoluto, complice la necessità di non ripetere mai le stesse cose, Moonage Mantra rappresenta questo concetto forse meglio di altri nostri vecchi dischi, perché si tratta del primo realizzato con una line up in cui non compaiono basso e batteria, perché metà delle canzoni è stata concepita e scritta in lingua inglese e perché – e questa potrebbe essere la vera reale differenza con gli altri lavori – è il risultato di un lavoro schizofrenicamente complesso e condiviso, attribuibile a due identità diverse dello stesso progetto.
Le due facciate del disco, che uscirà su vinile in tiratura limitata, sono infatti i territori su cui ci siamo avventurati, fra chitarre blues, elettronica vintage e psichedelia politicamente scorretta, all’interno di un viaggio sonoro in cui non c’è una meta ben precisa, ma solidi compagni d’immaginazione. Una metà della luna sarà Dorian Gray, l’altra Golem In Love, alter ego anglofono della band, stralunata emanazione di una presenza ancora sconosciuta ai più, proveniente dalla stessa galassia che ha partorito i synt monofonici o certo kraut rock. Questo fa sì che Moonage Mantra nasca come operazione artisticamente schizofrenica, due band con gli stessi musicisti, le affinità che nascono dagli opposti, musica come terapia per menti affollate.
Oltre a ospiti importanti – fra gli altri, Blaine Reininger dei Tuxedomoon, Luca Masseroni dei Tre Allegri Ragazzi Morti e il polistrumentista Sebastiano de Gennaro – è importante sottolineare che sarà un disco da vedere e non solo da ascoltare, perchè conterrà un libro di 16 pagine realizzato da alcuni fra i più importanti maestri del fumetto italiano, il che offrirà un altro piano narrativo attraverso il quale raccontare le emozioni, una sorta di Moleskine visivo per entrare dentro i segreti degli autori e nel loro mondo. Personalmente penso che raccontare sia meglio che descrivere, perché la descrizione uccide sempre l’immaginazione e rende inutili i sogni.
Che progetti avete per l’estate?
Scrivere e lavorare sui video tratti dal disco e prepararci per l’autunno, che per noi sarà più caldo di quello del ’69. Un saluto a tutti.
Federica Monello
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