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Best New: Eva Braun
L’album d’esordio della band romana Eva Braun si intitola Dopo di noi il diluvio (Volume 1) è uscito l’11 aprile per l’etichetta Exit Records ed è la prima parte di un concept sulla labilità della vita tra i venti e i trent’anni in uno stato sociale che ci vuole sottoposti alle sue logiche e ci illude “di avere un destino o, peggio ancora, un destino speciale” . Scopriamo insieme tutti i dettagli in questa intervista, buona lettura!
Dopo di noi il diluvio (Volume 1) è il vostro album d’esordio: di cosa parlano i brani che lo compongono? E il titolo a cosa allude?
È tutto racchiuso nelle parole di Massimiliano Parente nel romanzo “Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler”, in cui parla dell’illusione di avere un destino, o peggio ancora un destino speciale. La generazione dei venti e dei trenta si ritrova a sprecare un’intera esistenza per realizzare ambizioni e velleità, dovendo di contro reprimere ogni impulso ed emozione. È un processo che trae origine dal boom economico: parte dai nostri padri e dai nostri nonni che, ritrovatisi in una situazione di benessere economico, da un lato hanno alimentato l’idea di una nuova generazione di fenomeni, dall’altro, memori di miserie storiche ancora vivide nella testa, hanno spinto la generazione futura all’ambizione alla carriera, quantomeno del posto sicuro, che alla fine è diventato “metti la bandierina e bacia per terra”. Questo scenario è ben rappresentato da Antonio Rezza in “Fratto_X” quando un disgraziato della nostra “generazione X” viene bombardato dai consigli della famiglia: “Ingegneria, prendi Ingegneria” dice il padre, “Economia e Commercio, dai retta a me” gli fa eco la madre. Poi arriva il nonno che gli suggerisce Agraria. Risate. Ecco, in questo sketch, Rezza tralascia di rappresentare il rovescio della medaglia. Stessa situazione, ma stavolta il padre dice: “Questo ragazzetto farà il calciatore/il chitarrista/l’attore, è un fenomeno”, la madre lo segue: “Diventerà una ballerina/una cantante/un’attrice”. Poi arriva il nonno che smolla cento euro e ce le andiamo tutte belle belle a fumare e bere. Il risultato è: schizofrenia. “Non ridere, non piangere, prima o poi ci passerà” (Motta). Non c’è assolutamente niente di male nello spronare le ambizioni di un figlio (che a volte coincidono anche con i rimpianti di un genitore) né c’è nulla di male a frenare gli entusiasmi dello stesso figlio indirizzandolo verso una strada più sicura e morigerata. Farlo in contemporanea genera schizofrenia. Siamo una generazione di schizofrenici bombardati da ogni lato (fosse solo la famiglia!) verso ambizioni più o meno megalomani e scenari contrastanti. Parte tutto dal dopo guerra e finisce tragicamente con i social network. Con i social network si passa dal “Tu puoi essere qualsiasi cosa, basta che ti impegni” al “Tu già sei qualsiasi cosa che hai immaginato di poter essere, anzi fai una cosa, faccelo vedere subito”. Non è un caso che, da questa Babele, in cui tutti si sentono poeti, ha vinto la banalità, in tutto, anche nella musica indie. Perché la parola è inflazionata. In questa schizofrenia che ci vede in eterna crisi per decidere cosa fare di noi, ci siamo persi l’ingrediente fondamentale e unica condizione per vivere da esseri umani e non con appiccicata un’etichetta – ingegnere/poeta/attore/dirigente: l’amore. È un concorso di colpa. Ce lo hanno ripetuto troppo poco e noi eravamo troppo distratti dalle giostre per ascoltare. Abbiamo perso la lezione. È solo un giro di giostra già lo diceva Bill Hicks nei primi Novanta. È solo un giro di giostra, ma noi lo abbiamo preso sul serio, caspita quanto lo abbiamo preso sul serio questo giro di giostra, e più lo prendiamo sul serio e più ci allontaniamo dall’unico antidoto a nostra disposizione per vivere, e non per sopravvivere solamente: amare. Ecco l’album parla di questo: è il tentativo di un essere umano di rivendicare l’unica cosa che lo può rendere umano, l’amore. Forse è un tentativo disperato, “Tentare nuoce eccome, ma è l’unica speranza che abbiamo”.
La dicitura Volume 1, chiaramente, lascia intuire che il disco avrà un seguito, spiegateci meglio in cosa consiste questo progetto
Stavamo provando un chitarrista solista per la band, e conosciamo Giorgio Maria Condemi, persona squisita e chitarrista impegnato già in vari progetti molto importanti come i Bronson e gli Operaja Criminale, e ora al seguito di Motta. Parlando a fine prova ci dice che abbiamo quella carica e quella ruvidità cantautorale che si allinea molto allo stile di Giorgio Canali e che avremmo dovuto pensare di fargli sentire un demo del materiale che avevamo, una sorta di pre-produzione e proporci. Io Giorgio Canali lo vedo come una persona che potrebbe insegnarmi tantissimo, soprattutto per la vocazione musicale che sento vicina. Lo conobbi anni fa, aprendo un suo concerto, mi fece i complimenti per i testi, rimasi di stucco, ricordo che entrai in camerino e mi misi a piangere come un bambino. Da allora sogno di poter fare questa esperienza, essere prodotto da lui. Per fare qualcosa di veramente importante, un’esperienza di vita. Vedi come bisogna che tutto passi per “l’essere umano” e non per avere un’etichetta addosso, in questo caso “un gruppo musicale”. Deve essere tutto in funzione di esperienze di vita. Così abbiamo deciso di spezzare l’album. Avevamo un eccesso di canzoni, io continuo a scriverne e non mi fermo. Avevamo pochissimo tempo per registrare. Allora ripensando alle parole di Giorgio Maria Condemi abbiamo detto: “Spezziamo l’album in due parti, la prima parte sarà il demo per Giorgio Canali. Oh, abbiamo realizzato una demo fatta molto molto bene (ride n.d.r)
Quando nascono gli Eva Braun e quali sono state le tappe principali che hanno unito le vostre strade?
Gli Eva Braun sono giovanissimi. Nascono un anno fa. Da me e un mio collega Emanuele Bastianelli, primo batterista della band, che mi fece conoscere Daniele Sganga, attuale bassista e direi anche co-fondatore. Poi ci ritrovammo presto, per motivi lavorativi, senza Emanuele, sostituito da Marco Vollaro che purtroppo dovette abbandonare anche lui dopo poco. In quei mesi eravamo io e Daniele a continuare a scrivere canzoni e a tirare un progetto che fondamentalmente aveva idee ma aveva un gruppo zoppicante. Abbiamo continuato a scrivere e a registrare tutti i pezzi che avevamo, appena potevamo, abbiamo tenuto duro, anche quando abbiamo chiamato Riccardo Macrì, il batterista dei Verderame, per finire il lavoro in studio di questo primo volume. Siamo stati stoici. E questo nostro stoicismo ci ha ripagato, con Alessia Di Rienzo alla chitarra e Simone Contini alla batteria, due musicisti con i controcazzi, diciamolo pure, con cui ora stiamo a testa bassa trottando per tirare su il volume 2 e siamo pronti per presentare live il volume 1.
Qual è la vostra metodologia creativa: nascono prima le parole o la musica? Oppure tutto si svolge in base all’ispirazione del momento?
L’iter creativo è bukowskiano: per il 99% del tempo non succede un cazzo. Poi in cinque minuti tiro giù un testo e una linea melodica: quella è la struttura di un qualcosa senza una vera e propria forma, che viene lavorato, ripulito, centrifugato e steso ad asciugare dal gruppo intero. Prima è un lavoro di pancia, poi ci si mette la testa. Così è la vita. Mica ami con la testa, è una cosa che ti senti bruciare dentro la pancia. Poi la testa serve a far crescere e dare una forma al tuo bruciore di pancia. E a comprare una scatola di Maalox.
Come definireste le vostre sonorità se doveste usare tre aggettivi?
È come se dicessimo a un pittore di scegliere tre colori da cui è partito per fare le sue tele. Quello ti risponde: “Rosso, verde e blu”. Partiamo tutti dai colori primari, poi diventano un Van Gogh, un Monet o un Picasso. Quindi la mia risposta è: rosso, verde e blu.
Porterete in tour le vostre canzoni?
Certo. Siamo solo all’inizio. Questo è il prequel. Siamo al: “Ho intenzione di portare il demo alla Sub Pop, intanto facciamoci una suonata in giro”.
a cura di Laura De Angelis
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