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Musica

Sono tornati gli Afterhours, passando per la "Padania"

Redazione Urban

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Dopo quattro anni da “I milanesi ammazzano il sabato”, uno dei gruppi più longevi ed importanti del rock italiano ha da poco presentato il suo nuovo album, intitolato “Padania“. Stiamo parlando degli Afterhours, che con questo disco mostrano un desiderio di sperimentare ancora e di innovarsi che lascia stupiti: molti gruppi dopo un inizio esaltante si adagiano e si accontentano di alimentare a stento la gloria passata, mentre la band lombarda ha sicuramente il pregio di non essersi rilassata, e in “Padania” si notano numerosi esperimenti melodici e strumentali, supportati da testi che, come al solito, non lasciano indifferenti.

Non tutti i brani convincono appieno, ma nel complesso si tratta di un buon disco. Gran parte delle canzoni è espressione di quella che è la filosofia di fondo dell’album: lo stesso Manuel Agnelli ha dichiarato che il titolo non è riferito esclusivamente alla regione geografica e alla Lega, ma va inteso in un contesto più ampio, a indicare quasi un’impostazione mentale che rifiuta ciò di cui si ha paura, fino a chiudersi su sè stessi e a limitare la propria personalità. Si parla velatamente anche di crisi, della società odierna improntata sulla prevaricazione sugli altri, delle masse e dell’animo umano, sempre sotto forma di “aggressive” e “lugubri” poesie dal forte impatto.

Alla fine il pezzo più rappresentativo ed intenso è probabilmente il “title track”, Padania: magari un pò fuori dallo stile, almeno musicalmente, del resto del disco, ma senza dubbio il più significativo, grazie ad un testo delicato e malinconico, una base prevalentemente acustica (ritornelli esclusi) e un’atmosfera di fondo molto evocativa e poetica. La canzone non è rabbiosa, ma è anzi pacata, come se volesse mostrare il dispiacere per come l’uomo può trasformare le proprie radicate paure in rifiuto verso gli altri e in un conseguente tentativo di isolamento, e mantiene forse una flebile speranza che tutto questo un giorno possa cambiare. Molto interessante anche “Metamorfosi”, un brano che riserva particolarissimi esperimenti vocali e strumentali, con una base dalle sonorità elettroniche in contrasto con le note del violino e un Manuel Agnelli che sfodera dei vocalizzi “alla Stratos” davvero notevoli, il tutto accompagnato da un testo di grande impatto. Altri pezzi molto originali e sperimentali sono “Ci sarà una bella luce”(in cui si individuano tracce di progressive), “Giù nei tuoi occhi”(a tratti quasi rappato, con un gran ritmo e un riff molto coinvolgente), “Io so chi sono”(gran ritmo, molto bello il testo) e “La terra promessa”(effetti melodici molto particolari, giocata molto sui contrasti).

A questo punto è da considerare legittimo che gli Afterhours abbiano voluto inserire anche qualche brano più rappresentativo delle loro radici musicali, verso un rock più classico e meno originale, ma probabilmente ciò ha comportato una maggiore confusione nella visione globale del disco, che forse ha perso un pò di efficacia. “Terra di nessuno” e “La tempesta è in arrivo” sono piuttosto simili e, sebbene non siano certo lavori da buttare, puntano più sull’orecchiabilità e la capacità di coinvolgimento, piuttosto che su nuove idee; “Costruire per distruggere” ha un intro particolare ma poi affonda in una melodia piuttosto consueta, e il discorso è simile per “Nostro anche se ci fa male”, anche se quest’ultima vanto uno splendido testo che migliora il quadro generale. Nonostante qualche brano al di sotto del livello generale, si tratta di un album coraggioso e interessante, che tenta di uscire dagli schemi, tutto sommato riuscendoci. Meritano una menzione le tracce 8 e 12 (“Messaggio promozionale n.1” e “Messaggio promozionale n.2”), divertenti parodie delle pubblicità che evidenziano ancor di più la tendenza anticonformista del disco. Gli Afterhours possono piacere o meno, ma ci sono, e sanno farsi sentire.

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